di rav Haim Fabrizio Cipriani
In occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne
In memoria di Morenu haRav Giuseppe Laras z’l
“E Itshaq intercede presso YHVH in presenza di sua moglie, perché lei é sterile. E YHVH intercede presso di Lui, e Rivkah sua moglie concepisce” ( Gn 25: 21)
La vicenda è ben nota. Itshaq, figlio del patriarca Avraham, e la moglie Rivkah, non riescono a concepire, e il patriarca implora la Trascendenza “In presenza di sua moglie”. Questa espressione, l’nochah, è resa in modi diversi nelle differenti traduzioni della Torà: “a riguardo di sua moglie”, “per sua moglie”, ma a me sembra che la traduzione più precisa sia “in presenza di” o “per la presenza di”. Ma cosa significa questo?
Mi pare che la specifica della presenza di Rivkah sia la chiave per la comprensione dell’episodio. La giovane è entrata in scena come una sorta di elemento accessorio nella vita del marito, che non l’ha scelta ma ricevuta dopo che il servo di suo padre l’aveva scelta per lui (Gn. 24). Rivkah viene allora accolta da Itshaq come una sorta di sostituzione della madre Sarah appena deceduta, e non a caso Avraham si era mosso per cercare una moglie per il figlio immediatamente dopo la perdita di Sarah. Quando la ragazza giunge presso il futuro sposo, è detto che “Itshaq la conduce nella tenda di Sarah sua madre …. E Itshaq si riconforta dopo sua madre” (Gn. 24:67). Questi indizi fanno pensare a un rapporto particolare, in cui Itshaq avrebbe visto in Rivkah l’immagine della madre deceduta, e avrebbe tentato di ricreare con essa una relazione simile, che non è, per antonomasia, il tipo di relazione più propizia per il concepimento di figli. L’impressione è quindi che Rivkah non abbia uno spazio, un ruolo, una presenza e un’esistenza proprie. Solo dopo che il marito le riconosce tutto ciò, pregando “in sua presenza”, il concepimento diventa possibile. Qualcosa del genere sembra essere implicato dal commento di Rashi, il quale spiega l’espressione “in presenza di” dicendo che Itshaq pregò in un’estremità della stanza, con Rivkah all’estremità opposta, come a dire che questa disposizione lo obbligava a vedere finalmente la moglie come una persona, in un modo che non permetteva la cancellazione della presenza di lei. La causa della sterilità è quindi forse da ricercare proprio nel fatto che, affinche la vita sia possibile, è necessario poter incontrare l’altro nella pienezza della sua alterità. L’alternativa è quella di assorbire l’altro e ridurlo fino a cancellarlo. A quel punto, non ci può essere relazione e quindi vita, perché l’Altro è ridotto allo Stesso.
Questa dinamica mi sembra essere al cuore di ogni abuso perpetrato ai danni delle donne. Parlo chiaramente delle violenze più gravi, ma anche di tutte le forme più “morbide” di riduzione della loro visibilità e del loro peso, ossia della loro “presenza”. Perché fondamentalmente quando un uomo abusa di una donna, in un modo o in un altro, non fa che seguire questo istinto di cancellazione dell’altro e di negazione della sua presenza. Tale presenza richiama il maschio ai suoi limiti, alle sue inadeguatezze, e al fatto che (Grazie a D-io!! ), il mondo non gli appartiene. Gli atteggiamenti che ne conseguono derivano quindi proprio dal disperato bisogno del maschio di rifiutare tutto ciò.
Questa riflessione mi riporta al ricordo delle discussioni intrattenute col mio maestro, rav Giuseppe Laras, scomparso pochi giorni fa, a cui devo, fra l’altro, la scelta del rabbinato, che fu un suo suggerimento in una fase della mia vita in cui non avevo realizzato questa possibilità. Durante i miei studi sotto la sua supervisione, discussi spesso con Rav Laras del mio impegno per dare alle donne più presenza nella vita ebraica e nelle espressioni rituali dell’ebraismo. Tengo peraltro a specificare che questo non passa necessariamente attraverso una totale eguaglianza rituali fra i sessi, ho infatti conosciuto luoghi ebraici paritari in tal senso ma comunque sessisti, e altri che, senza essere paritari, sapevano garantire piena presenza e dignità alle donne. Ho quindi imparato a diffidare delle etichette e degli slogan. Tornando al soggetto, rav Laras mi incoraggiò anche ad approfondire questo argomento, che poi sviscerai nel mio libro “Ascolta la sua voce”. Una cosa sulla quale rav Laras insisteva sempre, e fu l’ultima cosa che mi disse l’ultima volta che lo incontrai, pochi anni fa, era “Ricordati di fare Qeruv Rehoqim, di riavvicinare i lontani; è la cosa più importante”. Per me i lontani sono sempre stati coloro che per diverse ragioni si erano allontanati dalla spiritualità. Ma anche coloro che, suscitando con la loro presenza e la loro differenza quelle pulsioni di cancellazione e annullamento dell’altro di cui sopra, erano magari tollerati ma solo a condizione che la loro presenza non fosse troppo evidente o ingombrante, il che li aveva portati ad allontanarsi. Parlo di molte donne chiaramente, ma anche di molte persone omosessuali.
Sta a tutti noi impegnarci attivamente per ridurre e cancellare questa visione del mondo, quella in cui alcune categorie di esseri umani ritengono di poter imporre ad altri l’esclusività della loro presenza. Sta a noi non nascondere dietro di noi l’Altro ma, come seppe infine fare nostro padre Itshaq, porci invece in una dimensione dove l’altro sia visibile ai nostri occhi, dove la sua presenza sia pienamente onorata e riconosciuta, e mai subita o tollerata solo se trasparente. Allora vi sarà fecondità, concepimento, vita.
rav Haim Fabrizio Cipriani