Conferenza tenuta per la giornata del dialogo ebraico cristiano, Lecce, gennaio 2018
Di Furio Aharon Biagini
Lamentazioni, il terzo libro delle Meghillot, è uno di quei testi che non ha ancora ricevuto, almeno in ambiente cristiano, una piena attenzione. Forse, perché questo piccolo poema è una triste e cupa narrazione dei dolori di Geremia di fronte alle rovine di Gerusalemme. Eppure il libro racconta molto di più di una triste rappresentazione delle iniquità della vita, come qualcuno ha affermato è più di un “diluvio di dolore, un fiume di lacrime, un mare di singhiozzi”. Questi cinque poemi sono una affermazione di fiducia nella giustizia e nelle promesse divine. L’autore ha visto il dolore, la crudeltà, la distruzione, ma non perde la fiducia in un futuro migliore.
Come molti libri della Bibbia ebraica originariamente Lamentazioni prende il suo titolo dalla prima parola ebraica del testo. Il rotolo è dunque chiamato Ekhà che può essere tradotto con “Come?”, “Come mai?”. Parola su cui ritorneremo. La stessa parola introduce anche il secondo e il quarto capitolo del libro. I Maestri si riferirono a questo testo con un altro termine Qinoth, o lamenti, e come tale si trova citato nel Talmud babilonese (Bava Bathrà 14b-15a). Gli studiosi che tradussero la Bibbia ebraica in greco lo intitolarono Thrinoi, parola greca per lamentazioni. Nelle versioni successive greche, siriache e latine della Bibbia fu chiamato con il lungo titolo Le lamentazioni di Geremia.
Sembra che in origine gli ebrei considerassero Ekhà come una appendice del libro di Geremia. Lo storico Giuseppe alla fine del primo secolo E.V. sosteneva che la Bibbia ebraica fosse composta da 22 libri, lo stesso numero delle lettere dell’alfabeto ebraico – cinque di legge, tredici profeti, quattro di canti e inni. Secondo questa suddivisione Geremia e Lamentazioni, come Giudici e Ruth, erano considerati un solo libro. Anche molti padri della Chiesa parlano di 22 libri della Bibbia ebraica. Successivamente, quando fu rivisto il canone, Lamentazioni fu messo accanto a Ruth, Esther, Ecclesiaste e Cantico dei cantici (le cinque meghillà, rotoli).
Il libro scritto interamente in forma poetica, ma non in rima, descrive nel modo più vivido la rovina del regno di Giuda, la distruzione del Tempio di Gerusalemme, l’esilio del popolo ebraico ad opera dei babilonesi (VI secolo A.E.V.).
Sebbene i profeti avessero avvisato di ciò che poteva accadere, gli ebrei erano totalmente impreparati a questi avvenimenti. Al tremendo dolore per la caduta della nazione, si doveva aggiungere il sentimento di essere stati completamente abbandonati dal Signore. Il libro serviva tre differenti scopi. Psicologicamente dando espressione, attraverso questo triste ma bellissimo poema, alle emozioni dolorose, fisiche e spirituali, del popolo di Israele, aveva un valore terapeutico. Liturgicamente dava alla comunità la possibilità di esprimere la propria tristezza su quanto accaduto. Teologicamente serviva lo scopo di aiutare il popolo a mantenere la fede nel Santo Benedetto nel mezzo di un travolgente disastro. L’autore vuole che Israele riconosca la giustizia del comportamento del Signore verso di lui e abbia fiducia nella sua misericordia.
Il libro, redatto con una attenta cura formale, è scritto in forma di acrostico, cioè ogni versetto che lo compone (tranne il quinto seppur composto di 22 versi corrispondenti al numero delle lettere dell’alfabeto ebraico, che ha carattere di preghiera) comincia con una lettera dell’alfabeto disposta nell’ordine: il primo inizia con alef, il secondo con bet, il terzo con ghimel e così via fino al ventiduesimo caratterizzato dalla lettera tau. Il capitolo centrale, il terzo, ha sessantasei versetti, è composto di tre versi in tre versi. C’è tuttavia una eccezione nel secondo, nel terzo e nel quarto, il verso che inizia con la lettera pe precede quello che inizia con la lettera ain. Sappiamo che la parola pe significa bocca e che la parola ain vuol dire occhio. Ciò vuol significare, ci dicono i Maestri, che non si può far precedere la bocca agli occhi, ciò è l’origine di ogni pregiudizio e di ogni posizione precostituita. Non possiamo affrontare un qualsiasi argomento se non abbiamo una loro completa, anche se indiretta, conoscenza. L’esegesi rabbinica stigmatizza molto questo aspetto sottolineando come sia dannoso e pericoloso essere ideologicamente prevenuti.
Ekhà viene letto in tutte le comunità ebraiche la notte e la mattina del giorno che ricorda la distruzione del primo e del secondo Tempio di Gerusalemme, il 9 di Av che cade tra luglio e agosto. Questo è il giorno più tragico della tradizione ebraica ed è un giorno di digiuno. Il digiuno commemora le nostre più grandi sciagure per trarre insegnamento dalla storia onde evitare in futuro altre disgrazie (E’ indicato per la prima volta nel libro di Zaccaria 7,3: “Dobbiamo continuare a piangere il quinto mese e a digiunare come abbiamo fatto per tanti anni?”).
E’, tuttavia, un giorno allo stesso tempo triste e di festa per darci una lezione fondamentale: per rafforzare e anticipare la liberazione, si devono ricordare le calamità, essere pronti ad affrontare le crisi, ma senza mai perdere la fiducia nel futuro. Non è un caso se il Talmud di Gerusalemme, Berachot 2,4 ci dice che il Messia è destinato a nascere in questo giorno e anche nel Midrash Ekhà Rabbati possiamo leggere: “Nel giorno in cui è stato distrutto il Santuario è nato il liberatore”. (Noto, tra parentesi, che il valore numerico delle lettere ebraiche di Ekhà è 36 uguale al numero degli ebrei giusti secondo la tradizione). La commemorazione del 9 di Av è un evento chiave del giudaismo. Rafforza la fede, l’identità, il comportamento morale, la speranza; imparando dagli errori del passato siamo immunizzati dalla malattia dell’oblio. La memoria è liberazione, la dimenticanza è oblio. Il verbo ricordare, Zakor, appare numerose volte nella Bibbia ebraica e lo ritroviamo anche nelle Dieci parole. L’ebraismo obbliga i genitori a trasmettere la tradizione alle nuove generazioni per evitare i facili entusiasmi o il fatalismo. L’usanza italiana e sefardita di pulire la casa dopo minchà del 9 di Av mira a festeggiare la liberazione, mentre il digiuno esprime il riconoscere i limiti e la fallibilità di ognuno di noi e la ricerca di un miglioramento morale.
La rovina non è mai definitiva, il punto più basso della caduta è anche l’inizio della risalita. La vita e la morte, la gioia e il dolore non sono vissuti necessariamente come momenti separati, anzi è piuttosto ricorrente in tutta la vita ebraica, che anche nel momento in cui la morte e la distruzione sembrano prevalere, la tradizione ci indica la strada per far riemergere la vita. Per questo durante la minchà della vigiliadel 9 di Av, che è considerato moed, festa,non recitiamoTachannun, in ebraico supplica, la preghiera di supplica dei giorni feriali. Stabilendo questa regola i Maestri hanno voluto esprimere non solo la speranza, ma la certezza che così come le profezie di distruzione e di dispersione si erano realizzate, così pure quelle di consolazione e redenzione non tarderanno a manifestarsi. Questa certezza di redenzione dipende anche da noi, sta infatti a noi assumersi la responsabilità di mantenere viva la speranza messianica. Ekhà è una parola composta da quattro consonanti alef, yod, kaf e he, e compare per la prima volta all’iniziò di Bereshit (Genesi 3,9), ma con una differente vocalizzazione tanto che si legge Ayekkà. Ayekkà è la domanda che il Santo Benedetto fa ad Adamo dopo la trasgressione: “Dove sei?”. In proposito un racconto chassidico ci narra: “A un Rebbe imprigionato ingiustamente, il capitano delle guardie pose un quesito trabocchetto sulla domanda che il Signore aveva rivolto ad Adamo. Lo scopo del capitano è di dimostrare che l’Eterno, se pose questa domanda, non è onnisciente. Ma il Rebbe svolge la domanda in maniera molto diversa e sorprendente: “In ogni tempo il Signore interpella ogni uomo. “Dove sei nel tuo mondo? Dei giorni e degli anni da te assegnati ne sono già trascorsi molti: nel frattempo, tu fin dove sei arrivato nel tuo mondo?”. Adamo si è nascosto per non assumersi la responsabilità della propria vita. Da qui, dal ritornare a se stessi, parte un cammino che riguarda ogni uomo e che sarà personale, diverso per ciascuno, ma che implicherà sempre una scelta. Scegliere significa rinunciare a certe cose per privilegiarne altre, un modo di agire sacralmente che sta al fondamento del vivere ebraico. I Maestri affermano che sarebbe sufficiente che tutto Israele osservasse due Shabbat consecutivi per far venire il Messia.
Il Talmud racconta che quando i Saggi stavano camminando tra le rovine di Gerusalemme dopo la distruzione, notarono una volpe che si aggirava tra le macerie. I Saggi cominciarono a tutti a piangere, tranne Rabbi Akiva che rideva. Quando gli chiesero perché egli rispose: “Ora che abbiamo assistito alla realizzazione della terribile profezia di Geremia (Ekhà 5, 18: Sul monte di Sion, desolato, si aggirano le volpi), possiamo anche essere certi che la profezia di Zaccaria sulla ricostruzione del Tempio si realizzerà presto e ai nostri giorni”.